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La Nave dei Folli

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Prima che effetto di una moda, l’interesse e la curiosità crescente nei riguardi delle filosofie orientali è indice di una profonda trasformazione nel modo di concepire e vivere la soggettività nelle nostre società. Senza voler ridurre la complessità di questo fenomeno a un unico schema esplicativo, tuttavia bisogna constatare come non sia del tutto estraneo al movimento postmoderno di decostruzione del soggetto che, com’è noto, in gran parte trae origine dal rovesciamento epistemologico operato da Wiener e colleghi. A tal proposito, in Le Culte de l’Internet Philippe Breton rintraccia i legami, ancora troppo ignorati, tra il modello informatico, la tendenza orientaleggiante della controcultura americana e le nuove tecnologie dell’informazione. Dal fondatore di Apple, Steve Jobs, capofila della micro-informatica diventato monaco buddista, alla conversione del biologo e cognitivista Francisco Varela, passando per Bateson che adocchiava le spiritualità orientali, fino al ciberspazio di Pierre Lévy, le religiosità informatiche puntano risolutamente verso l’Oriente e il buddismo. (Per avere un quadro più ampio dei riferimenti al buddismo nelle scienze contemporanee, si veda la raccolta di interviste di Réda Benkirane, La teoria della complessità [2002], Bollati Boringhieri, Torino 2007)

A giudicare dalla popolarità di opere come Il Tao della fisica di Fritjof Capra, del 1975, e Computer Zen di Philip Toshio Sudo, del 1999, è difficile ignorare il legame tra la fascinazione per le spiritualità orientali e la cultura tecnoscientifica. Ne “Il principio di umanità”, d’altronde, Jean-Claude Guillebaud ha analizzato questa «presunta corrispondenza tra certe trasgressioni tecnoscientifiche contemporanee e la tradizione buddista». (Le Principe d’humanité, Seuil, Paris 2001, p. 178) Bisogna precisare che si tratta di un buddismo immaginario assai lontano dalle tradizioni ancestrali che l’hanno visto nascere e diffondersi in diversi contesti geografici e storici. Affermare, come fa l’autore di Computer Zen,  che il linguaggio binario è naturalmente legato allo yin/yang, e trasporre le regole della meditazione al digitare su una tastiera di computer, in effetti fa sorridere gli orientalisti seri. Eppure questa infatuazione è indice di un cambiamento in profondità del nostro universo culturale sotto l’effetto del paradigma informatico.

La seduzione esercitata ai giorni nostri dal buddismo si basa sul rifiuto del soggetto, sulla frammentazione dell’ego nel “molteplice” e sul culto della “differenza”. All’illusione dell’Io, alla marcata razionalità occidentale e al principio di unicità degli esseri, la “Via di Mezzo” contrappone il vuoto, il paradosso e l’eterno movimento. Come sottolinea Bernard Faure il buddismo è, per riprendere un’espressione di Michel Foucault, un «pensiero del fuori» (Bouddhismes, philosophies et religions, Flammarion, Paris 1998, p. 179), ricordando come Foucault, che nel 1978 soggiornò in Giappone in un monastero zen, avesse una forte fascinazione per il buddismo. (Si veda a tal proposito François Dosse, Histoire du structuralisme, Tome 2, Le Chant du cygne, La Découverte, Paris 1992, p. 400) Sradicato dal suo contesto storico e sociale, il buddismo fa eco al pensiero postmoderno, almeno secondo quanto dimostra lo specialista di religioni Faure: «La definizione buddista di assenza dell’io, la concezione della personalità come formata da una serie di aggregati fisico-psichici, il paragonare la coscienza a una cipolla i cui strati successivi non nascondo alcun nocciolo duro oppure il corpo a un miraggio, sono tutti tratti che ricordano la decostruzione apparente dell’unità personale del soggetto corporeo così come si ritrova in certi pensatori della postmodernità quali Gilles Deleuze et Félix Guattari.» (Bernard Faure, Bouddhismes, philosophies et religions, p. 178) Anche se le “macchine desideranti” degli autori dell’Anti Edipo in un certo senso si collegano ai corpi trasparenti dei buddisti, è meglio parlare di un neo-buddismo informatico vista la grande distanza che separa le tradizioni orientali dalla cultura postmoderna. Se si prende sul serio l’affermazione di Peter Sloterdijk in “Il sole e la morte” secondo cui «Lacan vuole giungere a una specie di buddismo», possiamo immaginare quanto l’impronta intellettuale di questo neo-buddismo informatico possa prendere deviazioni filosofiche ancora inesplorate. (Die Sonne und der Tod. Dialogische Untersuchungen, con Hans-Jurgen Heinrichs, 2001)

Il rovesciamento della prospettiva culturale sotteso all’emergere di un neo-buddismo informatico non si può comprendere senza tener presente l’anti-umanismo e il rifiuto radicale dell’eredità giudaico-cristiana propugnato da ormai più di settant’anni dal paradigma cibernetico. Eppure, l’idea di autonomia soggettiva su cui poggia l’edificio democratico è difficilmente pensabile al di fuori di questa eredità: illuminante in tal senso è la dimostrazione teorica del legame primordiale tra cristianesimo e modernità politica data da Marcel Gauchet in Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione (Einaudi, Torino [1985] 1992). La particolarità storica del mondo cristiano risiedeva, secondo lui, nell’esteriorità incommensurabile della trascendenza divina che, per essere compresa dagli uomini, ha dovuto incarnarsi. Oltre ad accordare un posto e un valore centrali all’individualità soggettiva, l’incarnazione di Cristo certifica l’alterità radicale della figura divina. La storia della cristianità appare allora come quella di un progressivo arretramento dell’al di là rispetto alle faccende umane; storia nel corso della quale il soggetto diventa poco alla volta il depositario del suo destino terreno. Partendo da questo presupposto è più facile misurare le conseguenze possibili per le nostre democrazie dell’attuale re-incantamento del mondo a cui partecipa il neo-buddismo informatico.

Non si sottolineerà mai abbastanza la distanza che separa le reinterpretazione moderna del buddismo dal suo contesto d’origine; infatti, come spiega Faure, «il dogma dell’assenza dell’io non restituisce appieno la complessità della dottrina del primo buddismo». (Bouddhismes, philosophies et religions, p. 174) I primi buddisti erano persone che avevano fatto delle rinunce, individui che, avendo rinunciato volontariamente al mondo e alla società, si erano ritrovati in una posizione particolarmente nuova: quella di essere degli individui a pieno titolo. Secondo la formula dell’antropologo Louis Dumont, costoro erano infatti degli «individui fuori dal mondo». (Louis Dumont, Essais sur l’individualisme, Seuil, Paris 1983) La negazione dell’io attraverso il ritiro e la meditazione devono perciò essere considerati, nei primi buddisti, come una forma di affermazione dell’individualità in un mondo divenuto troppo opprimente. Siamo lontanissimi dal neo-buddismo informatico che al contrario nutre il narcisismo esacerbato delle nostre società. L’odierna decostruzione del soggetto è accompagnata, in effetti, da un individualismo senza limiti e da un ripiegamento su di sé, con tutto quel che ciò significa in termini di disimpegno politico. C’è da dire che questa volontà di fuggire il mondo risponde, nella società contemporanea, a un sentimento crescente di vuoto interiore, come sostiene Alain Ehrenberg in “La fatica di essere se stesso” (La Fatigue d’être soi – depression et société, Odile Jacob, Paris 1998). Questo paradosso ritorna con forza ancora maggiore allorché si affronta, come ci apprestiamo a fare, le questioni relative all’ingegneria genetica e all’immaginario postumano.


La società cibernetica globalizzata che procede verso l’inevitabile naufragio

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