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La Nave dei Folli

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Lunedì 16:00 trending_flat 17:00

Abbiamo compiuto questa lunga e faticosa immersione negli scritti di Hardt e Negri non per la loro importanza, assai limitata, né per vocazione masochistica, ma per evidenziare alcune caratteristiche dei tempi attuali che, sebbene evidenti, continuano a essere oscurate se non negate, e per analizzare e verificare innanzitutto la sostanziale adesione alla prospettiva cibernetica della sinistra dei giorni nostri. Sebbene si dipinga di verde nel tentativo di intercettare le lotte in difesa del territorio e della terra di questi ultimi decenni – un esempio su tutti la Val di Susa – e le più recenti mobilitazioni delle giovani generazioni ambientaliste, in realtà spinge per la fusione con le macchine e propone una soluzione eco-tecnologica per il solo problema che esiste, quello climatico. Fuori discussione sovvertire il totalitarismo tecno-scientifico, che anzi molto spesso viene sostenuto come nel caso delle misure sanitarie e delle vaccinazioni durante il Covid. Inoltre, cosa ancor più triste e grave, questa ideologia post (moderna e umana) è penetrata anche in molti altri ambiti dove, oltre a compiere disastri con le varie ossessioni legate a sesso e genere o alla cosiddetta razzializzazione, ha trapiantato pensieri e pratiche tipici dell’autoritarismo finendo per difendere guerre, posti di lavoro, industrializzazione, cyber-tecnologie, per non parlare delle derive istituzionali palesatesi nelle ultime elezioni, europee prima e francesi poi.

Dunque, dopo aver mostrato il profondo carattere macchinico delle soggettività disobbedienti delle moltitudini postumane, concludiamo la panoramica dando uno sguardo ad altri cardini su cui ruotano i movimenti sinistri, presentati nell’Assemblea di Hardt e Negri del 2018. Lungi dal proporre un modello che non sia mercantile ed economicista, al fine di produrre a loro dire «soggettività potenti» non intendono abbandonare l’orbita del denaro, che è anzi «una tecnologia sociale che istituzionalizza le relazioni sociali», e sognano di «inventare un’alternativa alla moneta capitalistica, vale a dire, una tecnologia sociale alternativa per istituzionalizzare nuove relazioni sociali – una moneta del comune». Quel che hanno in mente non è la conquista di una qualche Banca centrale, né «quelle (comunque nobili) valute locali o digitali che cercano di sfuggire al potere totalizzante delle valute dominanti. (…) Siamo invece interessati a decostruire le relazioni sociali che la moneta capitalistica impone e istituzionalizza e a istituzionalizzare nuove relazioni sociali attraverso una nuova moneta», che sarà in grado di bloccare la finanziarizzazione della società e di «estendere le relazioni sociali autonome della cooperazione, confermando i valori del comune e generalizzando i suoi principi di libero accesso e produzione democratica delle decisioni. Una moneta del comune, allora, deve essere una tecnologia sociale che coroni i processi di soggettivazione, rendendo la produzione di potenti soggettività duratura e socialmente espansa.» (Assemblea, pp. 292-293)

Se in economia ambiscono a battere moneta, nel senso più spregevole del termine, e creare imprenditoria sociale cooperativa, sul piano politico propongono di sfuggire alla vecchia alternativa tra «un’orizzontalità inefficace e una leadership poco auspicabile o rifarsi a modelli politici tradizionali che bilancino spontaneità e centralismo, democrazia e autorità». In che modo? «La moltitudine deve prendere il potere, ma in modo diverso, attraverso l’innovazione radicale delle istituzioni democratiche e lo sviluppo delle capacità di gestire insieme il comune», e a tal fine ci sarà bisogno di un “nuovo Principe”, che «però, non sarà un singolo individuo, un comitato centrale o un partito», ma sarà come «una composizione musicale: l’ontologia plurale della moltitudine non si fonde in un solo elemento ma le singolarità – vale a dire le diverse forze sociali che continuano a esprimere le loro differenze – scoprono armonie e dissonanze, ritmi comuni e sincopati: compongono un Principe.» (pp. 292-293)

Potere, denaro, menzogna… nulla di nuovo tra le file dei marxisti-leninisti, che il voler rovesciare radicalmente la società lo hanno sempre considerato estremistico, controproducente: una malattia infantile, contro cui ora vorrebbero vaccinarci tutti. Nel nome di una “analisi concreta di una situazione concreta”, (che in fin dei conti altro non è ancora una volta che “analisi astratta di una situazione immaginaria”) gli ex-autonomi in via avanzata di automazione sarebbero, a differenza dei poveri sognatori, più realisti del re, e d’altronde lo stesso Negri aveva molti anni fa scritto nientemeno che “Trentatré lezioni su Lenin”, chiamandole giustamente “la fabbrica della strategia”. Ma i tempi sono cambiati e oggi c’è bisogno di un nuovo tipo di realismo politico per «spiegare come il passaggio dalla proprietà al comune si traduca nella creazione di nuove relazioni sociali, come riprendendoci il capitale fisso e stabilendo una nuova relazione tra umani e macchine possiamo produrre soggettività macchiniche e come l’imprenditorialità della moltitudine, la sua autorganizzazione e la sua autogestione, siano in grado di inventare istituzioni democratiche durature». (p. 299)

Evidente la loro fascinazione per il produttivismo, per cui non bisogna liberarsi dal lavoro ma ovviamente «riappropriarsi dei mezzi di produzione. Quando agisce in strutture di produzione che diventano sempre più relazionali e che aumentano la produttività quanto più relazionali diventano, il potere della forza-lavoro è in grado di impossessarsi di quelle stesse strutture, perché incarna e incorpora gli strumenti della produzione all’interno del proprio corpo. La figura dei produttori diventa macchinica, la loro formazione (all’interno delle strutture del capitale) diventa sociale e i loro prodotti diventano comuni. Molti autori leggono questo passaggio a una nuova fase della società capitalistica come un approfondimento della mercificazione del lavoro e della vita sociale nel suo complesso e in questa transizione, infatti, si danno forti elementi di mercificazione. Ci sembra, tuttavia, che questi elementi possano essere trasformati in un nuovo potere e che, quando la forza-lavoro si riappropria degli strumenti di produzione e prende il controllo dei rapporti di cooperazione, possa affermarsi con più forza ancora.»

All’obiezione secondo cui nelle condizioni odierne il lavoro non produca altro che alienazione e assoggettamento, rispondono che nonostante ciò sia in parte vero, non bisogna permettere che prevalgano questi lati negativi ed evirare che «la sofferenza dei lavoratori e la nuova schiavitù della produzione sociale, intellettuale e di cura ci rendano ciechi alla dignità e alla potenzialità delle loro capacità cooperative e all’intellettualità di massa.» Più chiaro di così! «La natura sociale del lavoro rivela (…) come la produzione economica sia sempre più orientata verso la produzione e la riproduzione delle forme di vita, sia nella produzione dei corpi che nella produzione di soggettività.» (p. 300) Noi siamo fatti dal tecno-capitale, questo è realismo! «Quando la produzione capitalistica diventa antropogenetica – concentrata sulla generazione e sulla riproduzione della vita umana e della soggettività – allora la forza-lavoro ha più che mai il potenziale per esprimere autonomia.» (p. 300-301)

Insomma, la magia della moltitudine è che riesce a trasformare in oro comune la merda capitalista. Più il capitale schiaccia le persone e le tritura nei suoi ritmi produttivi, più è possibile formare un contro-potere che faccia valere la forza della cooperazione. Più i capitalisti, «sotto la direzione della finanza, perdono le loro capacità di innovazione e vengono gradualmente esclusi dalla conoscenza della socializzazione produttiva, così la moltitudine genera sempre più le proprie forme di cooperazione e guadagna capacità di innovazione. Il capitale è costretto a trasferire la capacità di creazione del valore e l’organizzazione della cooperazione produttiva alla moltitudine imprenditoriale. La moltitudine non si limita a subentrare e a ripetere i compiti dell’imprenditore capitalistico, ma disloca la produzione e la riproduzione sociale lontano dalla proprietà e le dirige verso il comune. (…) Il capitale, naturalmente, detiene ancora armi repressive, alcune più dure di prima, ma non osa affrontare in termini diretti l’impresa che viene dal basso, per paura di distruggere le forze della cooperazione e ridurre la produttività. Qui, il potente mostro che la forza-lavoro moltitudinaria è diventata caccia via ogni San Giorgio che vuole ucciderlo» (p. 301)

Quello che Hardt e Negri smerciano, spacciandolo per antagonismo, è l’accettazione dell’unico modo di vivere neomoderno, e mirano alla moltitudine dei poveri produttori e riproduttori per proporre loro la solita vecchia panacea dell’organizzazione – ovvero il nuovo partito/entità/istituzione della sinistra postmoderna, in qualunque forma esso si presenti, informale o parlamentare. «Non c’è realismo politico senza organizzazione – anzi, organizzazione verso un obiettivo definito. Il realismo politico deve rifiutare ogni affermazione trascendente, ideologica, teleologica di un telos, ogni obiettivo imposto dall’esterno e deve, invece, adottare un telos costruito dal basso, a partire dai desideri della moltitudine: una teleologia immanente. Infine, un’analisi politica realista deve coinvolgere le istituzioni. Fondamentali a questo riguardo sono stati i tentativi di Foucault (…) di costruire una genealogia delle istituzioni che muova dalla critica del presente verso l’invenzione di nuove pratiche: la costituzione della potenza di vita contro il biopotere.» (p. 302)


La società cibernetica globalizzata che procede verso l’inevitabile naufragio

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