Prima di reimmergerci negli albori della cibernetica, ripercorrendo le conferenze Macy tenutesi a New York tra la fine degli anni ’40 e i primi ’50, dedichiamo alcune introduzioni di questo inizio di Settima stagione a un aspetto particolare di questa storia.
Esseri umani come macchine relazionali
Se già di per sé la cibernetica è un concetto sfuggente, troppo spesso collegato unicamente a computer e robot (tanto che gli usi più frequenti del termine sono cyber-crimine o cyborg), sfugge quasi del tutto il suo lato “umano”, se così si può dire. Se è indubbio che le prime mosse provennero dalle scienze dure – matematica, fisica, ingegneria – e che la cosiddetta seconda cibernetica si sviluppò da quelle biologiche, in particolare con la scoperta del “meccanismo della vita” che sarebbe contenuto nel DNA, si tende a sottovalutare, se non a dimenticare del tutto, come la nascente disciplina si considerasse alla base di un Nuovo Rinascimento, una riproposizione moderna e futurista dell’umanesimo.
Se con l’evoluzionismo l’essere umano aveva perduto (anche se solamente in linea di principio) il ruolo cardine di centro dell’universo e misura di tutte le cose, le nuove scoperte della cibernetica secondo cui esistono leggi unificanti valevoli per l’intero universo, dalle lontane galassie alle più infime particelle subatomiche, riposizionano l’umano alla sommità della piramide gerarchica. E questa volta né per ordine divino né per il dono della ragione, ma per il fatto che, sebbene condivida con il resto della natura, animata e inanimata, il succo della propria essenza, l’uomo ha il supremo compito, quasi un destino, di ordinatore. Grazie al progresso tecno-scientifico si erge come argine al dilagare dell’entropia, la tendenza innata del cosmo a degradarsi nel caos; e le macchine, fatte a sua immagine e somiglianza, servirebbero a potenziare la sua azione, mantenendole sempre ai suoi ordini, sotto il suo comando e controllo.
L’uomo dell’Era Cibernetica resta l’essere più elevato, ma questa sua caratteristica si allontana radicalmente tanto dalle concezioni religiose e spiritualiste quanto da quelle razionaliste e materialiste. Poiché il principio che sta alla base della “natura delle cose” altro non è che Informazione, possibilità e capacità di Comunicazione, ecco che l’uomo viene riconfigurato come una macchina-sistema cibernetica, produttrice di relazioni sottoforma di scambi di messaggi: in questo risiederebbe la superiorità del suo intelletto. Ciò non è stato chiaro ai profeti cibernetici finché non hanno incontrato e si sono confrontati con alcuni esponenti delle scienze umane, antropologi, sociologi, psicologi, e allorché costoro non hanno trovato specularmente nelle idee di Wiener e soci gli strumenti in grado di interpretare, e in prospettiva modellare, il soggetto planetario di questa nuova fase della rivoluzione industriale.
Al contrario di una certa opinione diffusa, le tecniche e strategie di gestione della “massa sociale”, dalla teoria dei gruppi alla facilitazione passando per molte altre fasi intermedie, non nascono tanto dal mondo manageriale – semmai qui vi finiscono “naturalmente” per osmosi, dato il diffondersi capillare delle imprese transnazionali e del capitale finanziario – quanto dagli ambiti accademici e dai centri di ricerca, molto spesso sponsorizzati dagli apparati militari. Novità rispetto all’Ottocento e alla prima metà del Novecento, all’avanguardia troviamo gli Stati Uniti, dove sono confluite personalità provenienti da molti altri paesi, spesso costrette ad emigrare a causa di persecuzioni o per le maggiori opportunità offerte dalle istituzioni americane, abbondantemente sovvenzionate tanto dal governo in una corsa al primato mondiale scientifico, quanto dalle Fondazioni, espressione di alcuni capitani d’industria e famiglie dell’alta finanza, spesso mascherate con intenti filantropici.
Prima di provare a tracciare una breve storia del lato umano e sociale della cibernetica, partiamo da alcuni indizi che ci hanno portato su questa pista di indagine. Il primo incontro che alcuni di noi ebbero con queste teorie e metodologie avvenne circa quindici anni fa in occasione di un incontro internazionale contro la costruzione di una miniera d’oro (e relativa distruzione della valle che doveva ospitarla) in Romania, in cui ci si rese conto di quanto fossero diffuse certe modalità e linguaggi soprattutto nei paesi più avanzati (sulla via della cibernetizzazione), dall’Inghilterra alla Germania passando per i paesi scandinavi – e, immaginammo allora, in buona parte importati o copiati dagli Stati Uniti. Se la diatriba attorno all’opportunità di dotarsi di strutture organizzative oppure di prediligere lo spontaneismo e l’informalità all’interno dei movimenti politici (non osiamo, per ovvie ragioni, scomodare inutilmente la parola rivoluzionari…) datava già dagli anni Sessanta-Settanta, ora ci si trovava di fronte a qualcosa penetrato molto più in profondità: una serie di pratiche, termini, atteggiamenti che i “nordici” davano quasi per scontati mentre i “sudisti” dell’Europa ignoravano e, venuti per la prima volta a contatto, misero subito in discussione.
Le proposte di organizzazione dei dibattiti, delle azioni e perfino della quotidianità ci parevano, oltre che dettate da un’eccessiva preoccupazione per le presunte tendenze autoritarie (che sfociava in ossessione quasi patologica), oltremodo rigide e burocratiche: in sostanza, per sfuggire a un ipotetico predominio di gruppi e personalità dominanti a danno di altrettanto ipotetiche minoranze subenti, si proponevano una serie di tattiche e tecniche di gestione dei gruppi e dei rapporti interpersonali che di primo acchito provocarono in molti tra di noi che non le avevamo mai incontrate di persona, una sincera diffidenza se non ripulsa. Per fare qualche esempio, si proponevano all’assemblea tutti quei rituali di comunicazione gestuale, come lo sfarfallare le mani per sostituire l’applauso, che avrebbero permesso di non interrompere chi parlava, e nascondevano sempre la solita ossessione per l’autoritarismo; si cercavano di creare fantomatici spazi sicuri, safe space, in cui fosse garantita l’incolumità dalle aggressioni (anche verbali) e in cui le suddette minoranze avrebbero potuto trovare momenti di pace e tranquillità, ipotizzando dunque che al di fuori di questi vigesse la legge della giungla dell’homo homini lupus; il tutto corredato da un’imponente cartellonistica fatta di segnali di allerta, in cui si invitavano soprattutto i maschi a non importunare, toccare, addirittura violare l’intimità altrui, soprattutto delle femmine e delle persone trans. Si imparò allora che stupirsi di fronte a questi provvedimenti, convinti in cuor proprio di non rientrare nel prototipo di persona descritta, significasse automaticamente sia negarne l’esistenza sia, peggio e in modo ancor più subdolo, incarnare tutte queste malvagità in modo inconsapevole: insomma, il privilegio di essere maschi, oppure cisgender eterosessuali, oppure bianchi, oppure occidentali, oppure adulti, oppure in buona salute, se non con l’aggravante di tutte queste cose assieme e pure altro, faceva di noi sistematicamente, cioè in modo sistemico, dei maschilisti transfobici colonizzatori razzisti agisti e abilisti, se non peggio. Perché queste cose ce le abbiamo dentro, come informazioni impresse in modo indelebile nel nostro DNA individuale: sono come si suole dire sistemiche.
Malgrado ci si fosse ritrovati a migliaia di chilometri da casa propria per costruire un’alleanza europea di lotte contro i progetti industriali di distruzione e riconversione del territorio e dei suoi abitanti, la quantità di persone che insisteva su questi argomenti era tale che giocoforza si dovettero dedicare parecchie energie e discussioni a dibattere sull’opportunità o meno, ad esempio, di creare uno “spazio bimbi” (peraltro pensato, in aperta montagna, all’interno di un tendone militare puzzolente e surriscaldato dal sole d’altura), quando peraltro i bambini erano pochissimi, molto piccoli e necessitassero di cure e attenzioni che si potevano rivolgere loro in maniera del tutto diversa, ad esempio offrendo appoggio e attenzione alle madri. Questo esempio ci fece vedere chiaramente l’assurdità di certe proposte, oltre al fatto che chi le portava avanti, come si poté constatare nei giorni seguenti (il burocrate perde il pelo ma non il vizio), non si azzardò minimamente ad avvicinarsi ai bimbi, tenerli in braccio o giocare con loro, e istillò in noi anti-sistemici un dubbio atroce: non sarà che questa meccanizzazione dei rapporti umani serva per l’appunto a risolvere problemi che in realtà non si vogliono affrontare in prima persona, delegandoli a strutture e organismi esterni all’individuo che se ne possono così tranquillamente infischiare e continuare a pascere nell’ignavia?
Molte altre cose si potrebbero raccontare su queste strutture relazionali, pesantemente infarcite di teorie postmoderne di ogni sorta, anche perché da quel momento in poi si è assistito a una vera e propria epidemia all’interno dei cosiddetti movimenti, fino ad arrivare ai nostri giorni in cui, come chiunque può constatare, la cibernetica relazionale ha ormai conquistato anime e corpi, assemblee e mobilitazioni. Oltre a sollevare i problemi di cui si accennava, tali filosofie (se così si può definire quel che sembra più che altro un omologarsi a norme, mode, cerimoniali… un bieco conformismo travestito da alternativo) postulano un essere umano fragile, preda di disturbi e turbamenti e – forse la cosa più grave – potenzialmente guaribile da terapie e terapeuti. Il partito diventa la struttura di cura, o per restare in ambito cibernetico, l’individuo isolato dal mondo e vittima di una realtà avversa, deve essere aggiustato per poter tornare a funzionare. Motivo per cui, nelle assemblee e mobilitazioni si moltiplicano, oltre agli oramai onnipresenti cartelloni comportamentali, spazi sicuri e luoghi non misti, una serie di momenti deputati all’ascolto e alla cura delle fragilità psicologiche, alla risoluzione di traumi e paure, alla condivisione di emozioni, sensazioni, spesso anche paranoie.
Chiaramente, la critica radicale di questi procedimenti di meccanizzazione dell’umano non significa negazione dell’esistenza dei problemi suddetti; al contrario, li mette in discussione proprio perché, secondo un’ipotesi non peregrina, in luogo di risolverli li rafforza, li cementifica e li rende quasi necessari, contribuendo – in accordo a questa epoca psico-pandemica – a trasformare l’essere umano in individuo debole, malaticcio e devastato intimamente, e quindi renderlo tale anche quando così non è. Ne sono un esempio lampante i documenti che circolano in seguito a manifestazioni, anche laddove il livello di scontro è stato minimo, come quello che segue.
DEBRIEFING PSICOLOGICO (ottobre 2024)
Dopo i momenti concitati, o situazioni che possono risultare traumatiche o psicologicamente provanti, è bene non lasciarci ad affrontare l’elaborazione di queste emozioni in solitudine. In Italia è poco praticato, ma in numerosi contesti il debriefing post manifestazione è ormai una pratica di cura consolidata (il testo qui di seguito è una rielaborazione di un breve testo circolato via Telegram dopo la “battaglia di Saint Soline” del 29-30 ottobre 2022 – LINK) Il debriefing psicologico è un breve momento di riconoscimento dell’energia impiegata, dell’impegno di chi ha partecipato che parte da una semplice ma fondamentale domanda: Come mi sento ora dopo gli ultimi eventi? – che ha l’obiettivo di fare una ricostruzione collettiva della narrazione fatta in andata e di ritorno per consentire di situare le zone d’ombra e le eventuali esigenze di sostegno di ciascun*. Quando il debriefing è finito, le prove sono state restituite al meglio e insieme. Chiuderemo questo spazio di parola con parole confortanti che ci ricordano l’esperienza appresa, la solidarietà e, se possibile, la speranza per il futuro. Possiamo anche prenderci il tempo per ricordare i mezzi che possiamo avere in termini di supporto psicologico ed emotivo (brochure informative, compagn* che ascoltano, psicolog* militanti ecc…) Il debriefing psicologico consiste nel tornare agli eventi permettendo a tutt* di condividere la propria esperienza e di ricomporre il racconto collettivo di ciò che è successo. Questo racconto collettivo deve avere un inizio, un mezzo, una fine. Deve permettere di situare le diverse scene attraversate dal gruppo nello spazio e nel tempo.
Non è il momento dell’analisi “politica”
L’obiettivo è avere una trama dell’evento su cui ognuno possa fare affidamento per appendere la propria esperienza emotiva. Costruire questa narrazione permetterà di individuare eventuali punti di confusione e incomprensione per poi dare un senso a questi punti basandosi sulla narrazione che ne fanno gli altri. In caso di shock traumatico, questo permette al tuo cervello di elaborare nuovamente le informazioni, e quindi di (ri)funzionare. Se questi punti di incomprensione persistono, i sintomi che fanno rivivere l’esperienza (flashback, incubi…) possono apparire fino a quando il tuo cervello non costruisce una narrazione che abbia senso. Finché l’esperienza non viene compresa, non viene elaborata/integrata. Questo può quindi immergere la persona in sintomi ansiosi e poi depressivi. Se senti che nel tuo gruppo ci sono punti di incomprensione che non riesci a risolvere, prova a cercare informazioni che ti aiutino, o anche aiuto in supporto psicologico per costruire una storia accettabile per il gruppo, anche senza avere tutte le informazioni. Se si sviluppano sintomi che non si attenuano o non svaniscono in 4-6 settimane nonostante questi consigli, non esitate a consultare un* professionista.
Proposte per un debriefing psy di gruppo
Se possibile, fai questo debriefing rapidamente dopo l’azione (“a caldo”) assicurandoti che tutte le persone che hanno agito insieme siano presenti. Un secondo momento di debriefing può essere eseguito in seguito (“a freddo”) per verificare lo stato emotivo e psichico di ciascun* e analizzare con più senno di poi ciò che è successo (debrief organizzativo). Trova, se possibile, un luogo tranquillo e accessibile a tutt* in cui non sarai disturbat* e impostate insieme una durata per quel momento. Garantire la riservatezza degli scambi. Mantieni la tua benevolenza nonostante le possibili tensioni e disaccordi. Sforzati di non giudicare ciò che è condiviso (senza proibirti di reagire quando arriva il momento condividendo i tuoi sentimenti, le tue emozioni). Vedi se qualcun* di voi vuole animare questo momento per facilitare gli scambi o chiama una persona esterna di fiducia.
Come costruire il racconto collettivamente?
Ognun* è invitato a raccontare la propria esperienza dall’inizio dell’evento. Cerchiamo di costruire questa storia a più voci; possiamo ad esempio proporre che ognuno ne racconti una parte man mano che la storia procede e poi tornare su di essa per illuminare eventuali mancanze e zone d’ombra. L’idea è che la narrazione sia coerente, soprattutto in termini di cronologia e spazio. Non c’è bisogno di essere rigoros*. Eventuali zone d’ombra sono indizi importanti da rilevare perché possono indicare incomprensioni e traumi. Debriefing in gruppo dopo una mobilitazione in cui si sono verificati eventi scioccanti è un po’ come guardare un film emotivamente duro con qualcun* che ti tiene per mano. L’obiettivo non è superare i passaggi complicati in accelerato, ma essere in grado di guardarli alla stessa velocità degli altr*, pur avendo con te le risorse di coloro che ti sostengono.
Domande per guidare gli scambi
Non è la dimensione della trasmissione delle informazioni che ci guida, ma la capacità di ciascun* di provare e gestire le emozioni che ha dovuto attraversare durante le situazioni menzionate nella sua storia. Puoi dirci come ti senti dopo questa mobilitazione? (Fisicamente ed emotivamente) Come è andata per te? C’è un momento (i) intenso (i) che vorresti condividere qui in modo che ne parliamo insieme? !!! Prima di cominciare: accoglienza, ripasso delle basi e impostazione del quadro (nessuno è prigionier* di questo quadro, possiamo lasciare il debrief in qualsiasi momento, segnalando il tuo bisogno di eventuale sostegno).
Sommario 7.2
- Introduzione con Debriefing psicologico
- IOA – Spot 4
- Droni ovunque – Cateno De Luca, sindaco di Messina 2018-2022
- IOA – Spot 5
- Dal Metodo Giacarta al Metodo Gaza (Seconda parte)
- Torino e il bus senza conducente (Primantenna Tv e TV2000, ottobre 2025)
- IOA – Spot 6
- Croazia: AI Anxiety Meter – Cartelloni pubblicitari elettronici di una compagnia assicurativa fornisce analisi del livello di ansia (2022)
Riferimenti 7.2
- Agitation Free, First Communication + Dialogue & Random + In the Silence of the Morning Sunrise + A Quiet Walk Part Two: Not of the Same Kind (2nd, 1973)
- Ruins, Mahavishnu Orchestra Medley + Komnigriss + Skhanddraviza + Djubatczegromm (Tzomborgha, 2002)
- Discanto siculo, Zufolomania (Ventu d’amuri, 2003)
- Ipercussionici, Tutti pari (Liotro, 2005)
- Lou Harrison, Grandly, but moderate (Double Concerto for Violin and Cello With Javanese Gamelan, 1981-82)Gendhing Sumyar (Gamelan Kraton Yogyakarta – Javanese Court Gamelan, Volume III, 1979)
- Ennio Morricone, Pullman in avaria (Il Federale, 1961)
- Blue Sharks, Viaggio in autobus (Funny Walk, 1971)
- Haustor, Capri (1982)
- Davide Riondino, Lucignolo (Radio3, Tutta l’umanità ne parla, 30/8/2025)
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