
Portami Via Festival 3 - Massimo Zamboni Massimo Zamboni
Massimo Zamboni, P.P.P. Profezia è Predire il Presente
Introduzione e presentazione dello spettacolo
L’ho dedicata a Pasolini.
Troverete, dopo il discorso di Paolo, le chiacchiere che abbiamo sentito, i racconti.
Ci sono tantissime assonanze sotterranee che si possono tracciare, si possono rivelare.
Non ve le voglio raccontare: credo che ognuno di noi le possa veramente sentire.
Questo spettacolo si chiama “PPP”, sono le tre iniziali di Pier Paolo Pasolini.
L’abbiamo interpretato come profezia e predire il presente.
“E io cianti, cianti, cianti, e no sai um viel sol par c’è,
e io cianti solamentri che per consolami me.”
[Parlato]
A fine ottobre 1975 sono all’Assemblea Nazionale degli Studenti della Federazione Giovanile Comunista a Rimini.
Il palazzetto dello sport è pieno di ragazze e di ragazzi.
In teoria ci assomigliamo, anche se incontro troppe camicie da funzionario e l’aria di chi conta per davvero.
Vedo braccia levate in alto con la tessera della FIGC, valida come delega per votare pro o contro qualche mozione; ascolto parole che mi lasciano tiepido.
Trascorro alla fine la maggior parte del mio tempo allo stand della libreria, quella degli editori riuniti, con titoli promettenti, grafiche spartane come loro caratteristica.
Acquisto un doppio volume che conservo ancora: “Canzoniere italiano, la poesia dell’altra Italia, i testi poetici popolari delle regioni italiane”.
Ed è da questo doppio libro edito da Garzanti che esce la Villotta Friulana che abbiamo appena ascoltato per la voce di Carlotta del Bianco.
Ne arriverà un’altra Furlana a breve: “Si sabessis fantacinis”.
E anche il compilatore di quel canzoniere si sarebbe sentito probabilmente fuori luogo, come capitava a me in quel contesto.
Il suo nome era Pier Paolo Pasolini.
Quella raccolta di testi popolari è stato il suo primo libro che ho incontrato.
Come vedete, ho cominciato dalla periferia delle sue opere.
Più avanti negli anni mi colpirà una sua frase dedicata a quei ragazzi della FIGC che, come me, affollavano quell’anno al Palazzetto dello Sport di Rimini.
Una frase pronunciata forse più per disperazione che per una convinzione, ovvero che i giovani iscritti alla FIGC fossero l’unica eccezione rimasta alla regola della degradazione.
Temo che avesse ragione anche su questo.
Quello che nessuno di noi poteva invece immaginare era che tempo sette giorni e il suo corpo calpestato sarebbe stato trovato ucciso sulla sabbia di Ostia.
Se avessi fantacinis c’è che son sospirs d’amor,
a si mur si va a sotiare e ancemon si sin dolor.
Voi sapete, ragazzette, che cosa sono i sospiri d’amore?
Si muore, si va sotto terra e ancora si sente dolore.
Pasolini conosce e vive fino in fondo quei sospiri d’amore, traslandoli in un dolore civico profondo, come lui stesso li definisce, dove la persona amata ha preso le forme di un’intera nazione, di un popolo intero.
Leggiamo le sue parole tratte dal canto popolare:
Siamo nel 1952, la nuova Italia è appena nata, ai suoi occhi è già perduta.
Improvviso il 1952 passa sull’Italia.
Solo il popolo ne ha un sentimento vero, mai tolto al tempo, non l’abbaglia la modernità, benché sempre più moderno sia esso, il popolo, sparto in borghi, in rioni, con gioventù sempre nuove, nuove al vecchio canto, a ripetere ingenuo quello che fu.
Ah, noi che viviamo in una sola generazione, ogni generazione vissuta qui, in queste terre ora umiliate, non abbiamo nozione vera di chi è partecipe alla storia solo per orale, magica esperienza, e vive puro, non oltre la memoria della generazione in cui presenza della sua vita è la vita perentoria.
E se ci rivolgiamo a quel passato che è nostro privilegio, altre fiumane di popolo ecco cantare.
Recuperato è il nostro moto fin dalle cristiane origini, ma resta indietro immobile quel canto.
Si ripete uguale.
Nelle sere non più torce ma globi di luce e la periferia non pare altra, non altri i ragazzi nuovi.
Apprende il borghese nascente lo saira e trepidi nel vento napoleonico all’inno dell’albero della libertà tremano i nuovi colori delle nazioni.
Ma cane affamato difende il bracciante i suoi padroni, ne canta la ferocia guaglione malavita in branchi feroci.
La libertà non ha voce per il popolo cane e il popolo canta.
[Musica]
Madre e Madonna degli sciagurati
Santa patrona del malaugurio
Croce e carezza dei mal capitati
Sparsa e corona di ogni tugurio.
Mamma madonna degli sciagurati
Signora nostra di tutto ciò che è
Vergine luce dei diseredati
Questo è ciò che sembra
Ciò che sembra non è
L’onda immensa del popolo minuto
Che amara tempesta in edificio crollò
Sacra la vittoria delle moltitudini
Non temo ciò che viene, temo chi è venuto già
Chi è stato a lungo solo solo a lungo resterà
Povero Cristo dalla testa rechina
Non avere un tetto non si chiama libertà
Nel letto funerale di ogni cosa viva
Non temo ciò che viene, temo chi è venuto già
Madre Madonna degli sciagurati
Signora nostra di tutto ciò che è
Vergine luce di diseredati
questo è ciò che sembra, ciò che sembra non è.
Dozza immensa del popolo minuto
Chiama la tempesta e l’edificio crollò
Sacra la vittoria delle moltitudini
Non temo ciò che viene, temo chi è venuto già
Mamma Madonna degli sciagurati
Signora nostra di tutto ciò che è
Vergine e luce dei diseredati
Questa è ciò che sembra, ciò che sembra non è
Stanotte nel dormiveglio ho avuto una di quelle illuminazioni per cui generalmente scrivo dei versi. La traduco ora invece in prosa: i monumenti, le cose antiche, fatte di pietra, legno o altre materie, le chiese, le torri, le facciate dei palazzi, tutto questo reso antropomorfico e divinizzato in una figura unica e cosciente, si è accorto di non essere più amato, di sopravvivere.
E allora ha deciso di uccidersi, in un suicidio lento e senza clamore ma inarrestabile.
Ed ecco che tutto ciò che per secoli è sembrato perenne, e lo è stato in effetti fino a due o tre anni fa, di colpo comincia a sgretolarsi contemporaneamente, come cioè percorso da una comune volontà, da uno spirito.
Venezia agonizza, i sassi di Matera sono pieni di topi e serpenti e crollano, migliaia di casali stupendi in Lombardia, in Toscana e in Sicilia stanno diventando dei ruderi.
Affreschi, che sembravano incorruttibili fino a qualche anno fa, cominciano a mostrare lesioni inguaribili.
Le cose sono assolute e rigorose, come i bambini, e ciò che esse decidono è definitivo e irreversibile.
Se un bambino sente che non è amato, inconsciamente decide di ammalarsi e di morire, e ciò accade.
Così stanno facendo le cose del passato, pietre, legni, colori, e io nel mio sogno l’ho visto chiaramente, come in una visione.
Pasolini ci racconta l’incanto di quel popolo antichissimo che partecipa alla storia solo per orale, magica esperienza, quel popolo forzato ad abbandonare la propria dimensione umana per gettarsi a inseguire l’inganno egualitario del consumismo, dove la ferocia dei secoli è sostituita alla ferocia delle carriere.
E a questo dedica una poesia, la chiamerà “Alla mia nazione”.
Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico, ma nazione vivente, ma nazione europea.
E cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti, governanti, impiegati di agrari, prefetti, codini, avvocatucci unti di brillantina, i piedi sporchi, funzionari liberali, carogne come gli zii bigotti, una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino.
Milioni di piccoli borghesi, come milioni di porci, pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti, tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
E proprio perché tu sei esistita, ora non esisti.
Proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica non puoi pensare che il tuo male è tutto male, colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare.
Libera il mondo.
[Musica]
Here we go su gambe storte
Sia la nebbia o sia l’hashish
Galleggiando in acque morte
Un bisbiglio che sarà
Here we go andiamo avanti
Sia la rabbia o sia l’hashish
Lucidi per brevi istanti
Sciolti nella cecità
Here we go sa cani sciolti
Tra consenso e varietà
Terra di profeti affranti
Regno della quantità
“Il peggio è passato, e non ce ne siamo accorti”
“Il peggio è passato e ci ha lasciato storti”
Adattando il viso al pianto
Sulle labbra scendono
Imperlato parte a parte
Un bisbiglio che sarà
[Musica in sottofondo]
Siamo entrati nella notte a bocca spalancata.
È bastato un attimo; che sia stata la rabbia, sia stata la nebbia o che sia l’hashish.
Nostra fissa dimora, spogliata in largo e pianta, ti seppellimmo che eri ancora bellissima.
Uno straccetto rosso, come quello arrotolato al collo dei partigiani e presso l’urna, sul terreno cereo, diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito, e con dura eleganza non cattolica, elencato tra estranei morti, le ceneri di Gramsci.
Tra speranze e vecchie sfiducie ti accosto, capitato per caso in questa magra serra, innanzi alla tua tomba, al tuo spirito restato quaggiù, tra questi liberi?
O è qualcosa di diverso forse, di più estasiato e anche di più umile, ebbra simbiosi di adolescente e di sesso con morte
E da questo paese in cui non ebbe posa la tua tensione, sento quale torto, qui, nella quiete delle tombe, insieme quale ragione, nell’inquieta sorte nostra, tu avessi stilando le supreme pagine nei giorni del tuo assassinio.
Così recita il terzo canto di uno dei componimenti più conosciuti di Pasolini: le ceneri di Gramsci.
Proseguiamo con altre parole, quelle che concludono un altro canto: le belle bandiere, dove il rosso straccetto al collo dei partigiani cresciuto diventando un ardente rosso su quei muretti, su quelle strade imbevuti di strano profumo dove fiorivano rossi nel tepore i meli, i ciliegi e il loro colore rosso aveva una brunitura come se fosse immerso in un’area di caldo temporale, un rosso quasi marrone, ciliegie come prugne, pometti come susine che occhieggiavano tra le brune e intense trame del fogliame.
Calmo, quasi la primavera non avesse fretta, volesse godersi quel tepore in cui fiatava il mondo ardente nella vecchia speranza di una speranza nuova, e su tutto lo sventolio, l’umile, pigro sventolio delle bandiere rosse. Dio, belle bandiere degli anni quaranta.
A sventolare una sull’altra in una folla di tela povera, rosseggiante, di un rosso vero che traspariva con la fulgida miseria delle coperte di seta, dei bucati delle famiglie operaie.
Ecco il fuoco delle ciliegie e dei pomi violetto per l’umidità, sanguigno per un po’ di sole che lo colpiva, ardente e rossa, affastellata e tremante nella tenerezza eroica di un’immortale stagione.
[Musica]
Ora dovremo avere tutti più coraggio.
Ora dovremo avere tutti più pretese.
Perché ancora dovremo piangere dei morti
Ancora dovremo piangere un paese
Ancora dovremo tutti vivere in ostaggio.
Ancora dovremo tutti smettere le intese
Perché ancora se dirci uguali per i torti
E ancora se dirci uguali nelle offese
Non accontentarsi di decidere che ci sia voglia di andare lontano
Non accontentarsi di decidere che ci sia voglia di andare lontano
Via da qua, via da qua, via da qua e non tornare.
Via da qua, via da qua, via da qua e non tornare.
Bene!
Mi sveglio per la prima volta in vita mia col desiderio di impugnare un’arma.
Il ridicolo è che lo dico in poesia e a quattro amici di Roma, due di Parma, che mi capiranno in questa nostalgia idealmente tradotta dal tedesco, in questa calma archeologica che contempla un’Italia solatia e spopolata, sede di partigiani barbari che scendono Alpi o Appennini per la vecchia via.
Non è la mia che frenesia dell’alba.
A mezzogiorno sarò con i miei connazionali alle opere, ai pasti, alla realtà che inalbera la bandiera, oggi bianca, dei destini generali.
E voi comunisti, miei compagni, non compagni, ombre di compagni, straniati cugini carnali, persi in giorni presenti come in lontani, non immaginati giorni del futuro, voi padri senza nome che avete sentito richiami che io credevo simili ai miei, quelli che ardono oggi come dei fuochi abbandonati sulle fredde pianure, lungo i margini dei fiumi dormienti, dei monti bombardati.
Prendo tutta su di me la colpa della disperata nostra debolezza, per cui milioni di noi con una vita in comune non furono in grado di andare fino in fondo.
“Vittoria” titola Pasolini questa poesia del 1964 di cui abbiamo letto questo frammento interno.
“Milioni di noi non furono in grado di andare fino in fondo, è questa forse l’accusa che rivolge al PC.”
Ma aggrappiamoci però ancora una volta a quella parola: “Vittoria”.
Andiamo al 25 aprile 1974, la rivoluzione dei garofani portoghesi, una delle ultime vittorie.
[Musica]
[Parlato]
Se potessi iscrivermi al PC lo farei e agirei di conseguenza, con una lealtà che può giungere anche a tacitare la coscienza.
Non è una novità che un uomo debba essere costretto a scegliere tra due vite di compromesso, e si arrenda.
Del resto, io mi sono sempre opposto al PC con dedizione, aspettando una risposta alle mie obiezioni, così da procedere dialetticamente.
Questa risposta non è mai venuta.
Una polemica fraterna è stata scambiata per una polemica blasfema.
Ma non è stato un errore prendermela per una banale ingiustizia.
Le istituzioni sono ingiuste, e dunque?
Ma è solo per le istituzioni che c’è un rapporto tra me e questi operai.
E non parlo solo del PC, ma anche di tutto ciò che è precedente ad esso, istituito nella storia millenaria che mi lega a questi uomini.
La loro volontà è quella di aver comandamenti da un padre.
Hanno già avuto un grande coraggio a liberarsi dal vecchio padre e di sostituirlo, raggiungendo così la sola loro libertà possibile.
Sia ben chiaro, questa pura e semplice eventualità di iscrivermi oggi, a quasi 47 anni, al PC non si realizza solo perché non sono ancora capace di far voto di castità, ma anche perché l’equivoco continua e mi sono incorreggibile nel perseguire la mia mania di verità.
[Musica]
Confusi nella calca senza comprenderla
Contusi nella carne vorremmo scorrere
Contravvenendo il mondo come nel sonno ma
Confusi nella calca
Vorremmo esserci
Tra gli ultimi rimasti
Senza felicità
Storditi nella calca
Vorremmo esserci
E stringere le mani
Senza difendersi
Contribuire a fondo
Al tempo che sarà
Da libri allucinati
Apprendo verità
Dagli scritti corsari
Sul tempo che sarà
Su strade provinciali
Si gioca la realtà
E confrontando i mali
Muovendo d’ansietà
Tra sterili cadute
Vorremmo esserci
In schiume e temporali
Vorremmo esserci
Nel ventre di balene
Vorremmo esserci
Per boschi e campi elisi
Vorremmo esserci
Nel rogo degli amanti
Vorremmo esserci
In lacrime banali
Vorremmo esserci
Tra gli esuli spaziali
Vorremmo esserci
E in giungere le mani
Vorremmo esserci.
17. Manifestar
Una smorta folla empie l’aria di irreali rumori, un palco sta su essa, coperto di bandiere del cui bianco il Bruno lume fa un sudario, il Verde acceca annera il rosso come di vecchio sangue, arisa o tetro vegetale, guizza cerea nel mezzo la fiammella fascista.
Il dolore inatteso mi respinge indietro, quasi a non voler vedere. E invece.
Con le lacrime che stingono intorno il mondo così vivo.
A sera nella piazza mi sospingo come disincarnato in mezzo a questa fiera di ombre.
E guardo, ascolto.
Roma intorno è muta, è il silenzio insieme della città e del cielo.
Non risuona voce su queste grida.
Il caldo seme che il maggio germoglia pur nel fresco notturno, un greve antico gelo preme sui muri preziosi, fatti mesti come nei sensi di un fanciullo angosciato.
E qui più crescono gli urli e in cuore l’odio, più brullo si fa intorno il deserto, dove il consueto pigro sussurro s’è stasera sperduto.
Ecco chi sono gli esemplari vivi, vivi, di una parte di noi ch’è morta, ci avevi illuso di essere nuovi, privi di essa per sempre.
E invece, scorta d’improvviso in questa lieve piazza orientale, ecco la sua falange, folta, urlante, coi segni della razza che nei popoli oscura allegria ha in essa triste oscurità, che impazza cantando la salute.
[Musica in sottofondo]
Quello che impressiona di questo comizio pasoliniano è che queste parole sono state scritte nel 1954.
Sono parole che potremmo aver scritto noi oggi, parole che avrebbe potuto usare Paolo Berizzi: “la falange, folta, urlante, coi segni della razza”.
Sono le parole di oggi, di casa nostra.
Pasolini si rivolgerà in seguito a differenti manifestazioni dedicando loro un titolo: “Manifestar”.
Manifestar significar per verba non si poria, ma per urli sì, anche per striscioni o canzoni.
Sono venuti a rifare il mondo e manifestando se ne dichiarano all’altezza.
La forza è nella virilità come una volta, ma la gentilezza è perduta.
Qualunque cosa si manifesti, altro non viene manifestato che la forza, sia pure la forza dei destinati alla sconfitta.
Tutto ciò che non si può significare per parole non è che pura e semplice forza, ma quanta innocenza nel non sapere questo quanto bisogna essere giovani per crederlo?
Poiché la libertà è incompatibile con l’uomo e l’uomo in realtà non la vuole, intuendo che non è per lui.
Quanti obblighi io mi sono inventati invecchiando per non essere libero…
Va bene, ma i più ingenui, i più inesperti, i più semplici, i più giovani, di tali obblighi se ne inventano ancora di più, anzi venendo al mondo la prima cosa che fanno è adattarsi a questo trionfalmente, facendo credere a sé stessi e agli altri che si tratta di obblighi necessari a una nuova libertà.
La realtà è che un ragazzo sceso qui dal nulla e del tutto nuovo, lui fa subito in modo di difendersi contro la vera libertà.
È soprattutto un ragazzo che conosce e accetta i doveri ed egli manifesta la forza della sua accettazione, meravigliosa adulazione del mondo, obbedire ai doveri della rivoluzione manifestando.
Per quanto fitta sia la trama dei doveri di un anziano, qualcosa in essa si è lacerato e io infatti intravedo l’intollerabile faccia della libertà.
Non avendo più grazia e forza, ho cercato allora di difendermi sorridendo come appunto fanno i vecchi che la sanno lunga, ma la libertà è più forte.
Sia pure per poco, non vuole essere vissuta, è un valore che distrugge ogni altro valore, perché ogni valore non è che una difesa retta contro di lei.
E i valori appunto sono sentiti specialmente dai semplici, dai giovani.
[Parlato]
Semplicità e gioventù, forme della natura, è in voi che la libertà è rinnegata attraverso un’infinita serie di doveri, puliti, innocenti doveri a cui manifestando si grida con aria minacciosa obbedienza, che i semplici e i giovani sono forti e non sanno ancora di non poter tollerare la libertà.
20. Corpo e libertà
[Musica]
Come nella cittadella fortificata, la parte abitata del corpo si ritira dietro la linea degli occhi per resistere all’assedio.
A quelle altezze la luce entra come fosse un minerale.
La parte restante del corpo resta abbandonata a sé, alla deriva.
E sebbene sia mio, quel corpo non è più un me.
Il mio corpo è un passaporto falso, un sacro niente.
Grazie sorella sconfitta.
M’hai dato gli occhi e tre piaghe nel cuore
E nessun filo per poterle cucire
E il coraggio per poterle cantare.
Grazie sorella sconfitta.
M’hai dato gli occhi e rubata la voce
M’hai schiaffeggiato sull’ultima guancia
Non mi restava null’altro da offrire.
M’hai dato gambe per un colpo di reni
Colpo di reni per il salto di fuori
Salto di fuori appeso nel vuoto
Un colpo di grazia per non farmi altro male
Grazie sorella sconfitta
M’hai dato gli occhi e i calli alle mani
Una lima ai nervi per imparare
Santa impazienza, ma ciò che tarda avviene
M’hai dato gli occhi e tre lame nel cuore
Qualche canzone da rimarginare
M’hai dato gli occhi e un microfono in mano
Eil coraggio per poterla cantare
Grazie.
Estate 1975, ho 18 anni, la patente è fresca, la fine del liceo misericordiosamente vicina alla tessera del Partito Comunista in tasca.
Tra tre giorni voterò, per la prima volta nella storia della Repubblica i diciottenni saranno ammessi al voto.
Sono adulto, sono libero, voterò le amministrative e so che cosa votare.
Ho votato PC e ho vinto.
Passa un anno, estate 1976.
Alle elezioni politiche di luglio voto per la seconda volta nella mia vita.
Vinciamo a mani basse, sembra un gioco facile e destinato, è normale pensare che non avremmo potuto altro che vincere.
Tutte le persone che frequentano votano come me, o più a sinistra.
Bandiera Rossa la trionferà, questo è un dato certo.
A scrutini terminati si va in centro a prendere un po’ di piazza, là dove i tabelloni appesi al balcone municipale portano i numeri di un trionfo.
A Reggio Emilia il PC va al 52,76%.
E quanto a senso civico, la percentuale media dei votanti in provincia è il 97,84%, tranne nel comune di Albinea, dove la percentuale vola al 101,12%.
Commenti, analisi, abbracci, sorrisi, saluti, commozione, l’Italia ha votato bene, abbiamo votato bene, il titolo dell’Unità è “Nuova, impetuosa, avanzata del PCI”.
Passano due mesi, neanche.
Siamo nell’estate, festival della gioventù comunista a Ravenna.
Le prime contestazioni arrivano subito in apertura per i prezzi, per il campeggio troppo lontano, fino al giovedì quando la città si trova assalita da una guerriglia che non può comprendere.
[Musica in sottofondo]
L’assalto ai supermercati, l’autobus in fiamme, le vetrate rotte, la polizia locale che non è preparata a intervenire, il centro storico per quattro ore in mano a qualche centinaio di autonomi dai volti coperti.
Ravenna svuota le strade, si chiude in casa, sbarra le finestre.
Il corteo si porta al festival dove nel frattempo è arrivato il reparto celere, gli scontri, gli spari, il ferimento di due ragazzi, le sassaiole, gli altri ferimenti, la tensione costante nei giorni successivi.
La cittadella dei giovani comunisti sembra accerchiata, gli indiani metropolitani si prendono i titoli di cronaca.
Mi infilo in capannelli raccolti attorno a un ragazzone vestito da pellerossa americano, capelli sciolti e un’accetta appesa alla cintura, si fa chiamare Cocis, è il leader degli indiani metropolitani.
Mi rigiro senza capacità di comprendere nello spazio di frattura tra la bonarietà romagnola e la durezza compiaciuta del servizio d’ordine.
Leggo slogan giusti, la libertà non è un festival, intuisco una voglia autentica di capire da parte degli organizzatori, ma l’impossibilità di farlo.
Perché dicono che il campeggio sia un lager, che i prezzi siano troppo alti?
Abbiamo appena stravinto le elezioni, ma che cosa succede?
E come comprendere le immagini che arrivano dal festival giovanile della rivista Re Nudo al Parco Lambro di Milano?
I corpi nudi, i girotondi in mezzo a lance di carcasse di polli, espropriati dai furgoncini della ristorazione, l’esagerare con un parossismo quasi isterico, le dinamiche di una liberazione che non arriverà mai.
Lo smottamento è in corso, quasi nulla capisco, la mia felicità per essere qua è senza condizioni, c’è un programma culturale da sogno, c’è un’Italia nuova e mi sento in difetto verso i reclami dei miei coetanei.
Rimbombo uno sgretolamento nell’aria, presto investirà tutto e tutti.
Lo sento, lo sentiamo, mentre balliamo fradici di pioggia davanti a Edoardo Bennato, stracciato come noi.
Le radio libere dicono che il suo sia un pessimismo cosmico, ma ci sembra più fondato del nostro ottimismo che comincia a barcollare.
E che paura, quell’obbligo di gioire a cui la nostra età ci vorrebbe condannare.
[Musica in sottofondo]
Fine della bella storia, il mondo non cambierà.
Bologna scoppia, nell’onda d’urto degli studenti il PC si è ribaltato in conservazione, partito d’ordine, potere, apparato, palazzo, regime.
I diritti conquistati dai padri sembrano cose da poco, esauribili ed effimere e la sprovvedutezza di quel pensiero da non garantiti comprendeva già come in un’illuminazione l’imminente collasso dello stato sociale.
[Musica]
Fermamente, collettivamente abbiamo intercettato spari e l’onda tumultuosa nel ritrarsi si sfiancava.
Fermamente, collettivamente abbiamo interrogato i capi per le loro bocche chiuse nel silenzio si gelava.
E lentamente ogni cosa che ci empiva, divorava, si ritrae.
Fermamente, collettivamente, abbiamo abbandonato i padri, a madre dolorosa l’occhio in pianto si allagava.
Fermamente, collettivamente, abbiamo accumulato impegni e intanto il sole rosso nel tramonto digradava.
Conviene, compagni, lasciare cadere le mani serrate alle belle bandiere.
Conviene, compagni, le nuove frontiere, le icone dorate, le splendide sfere.
Conviene, compagni, tornare a temere le croci cucinate, le scure galere, le spade sguainate, le strofe guerriere, le mani annodate alle lunghe le candele.
Conviene, compagni, sforzare a tacere, sepolcri imbiancati, le acquasantiere, le voci ufficiali, le vie parallele, tra le ronde armate, le sagome nere.
Conviene.
Fermamente, collettivamente abbiamo abbandonato i padri, a madre dolorosa l’occhio in pianto si allaga.
Fermamente, collettivamente abbiamo accumulato impegni e intanto il sole rosso nel tramonto dilaga.
E lentamente ogni cosa che ci empiva, dimorava, si ritrae.
Morte di Pasolini
Andiamo all’Unità, il 3 novembre 1975.
Profondo dolore e sgomento, un tragico lutto per la cultura italiana.
Un giovane di 17 anni ha confessato, aveva ancora le mani sporche di sangue.
Colpito alla testa e poi ancora schiacciato con la sua vettura.
Il corpo ritrovato tra le baracche di una nuova borgata sorta alla periferia di Ostia.
Questo è accaduto nella notte tra il primo e il 2 novembre, giorno dei santi, giorno dei morti.
Meno di un anno prima Pasolini aveva scritto assieme a Dacia Maraini il testo di una canzone cantata da Daniela Davoli: “I ragazzi giù nel campo” e ancora una volta le sue parole sono profetiche, impressionanti.
Ascoltiamole: “I ragazzi giù nel campo dalla caccia ad un pazzo poi lo strozzano con le mani e lo bruciano in riva al mare”.
[Musica]
Persi le forze mie, persi l’ingegno
La morte m’è venuta a visitare
E leva le gambe tue da questo regno
Persi le forze mie, persi l’ingegno
Le undici le volte che l’ho visto
Gli vidi in faccia la mia gioventù
O Cristo me l’hai fatto un bel disgusto
Le undici le volte che l’ho visto
Le undici e un quarto mi sento ferito
Davanti agli occhi le mani spezzate
La lingua mi diceva “è andata, è andata”
Le undici e un quarto mi sento ferito
Le undici e mezza mi sento morire
La lingua mi cercava le parole
E tutto mi diceva che non giova
Le undici e mezza mi sento morire
Beati noi che dal cimitero ne siamo usciti vivi
Con in faccia un giorno di giugno fianco agli uomini e il mare
E la piazza e le bandiere, la bara e noi a cantare
Bella Ciao l’Internazionale che strano funerale
E la gente trovata e perduta
Insieme per lavorare
Quanto sangue e quanto sangue
Che si deve versare
Mezzanotte ho da confessare
Io cerco perdono dalla madre mia
E questo è un dovere che ho da fare
Mezzanotte ho da confessare
Ma quella notte volevo parlare
La pioggia al fango, l’auto per scappare
Solo morire lì vicino al mare
Ma quella notte volevo parlare
E quanto sangue, quanto sangue che si deve versare.
[Parlato]
Neppure sul sangue dei lager tu otterrai da uno dei milioni d’anime della nostra nazione un giudizio netto, interamente indignato.
Irreale ogni idea, irreale ogni passione di questo popolo ormai dissociato da secoli, la cui soave saggezza che gli serve a vivere, non l’ha mai liberato.
Mostrare la mia faccia, la mia magrezza, alzare la mia sola puerile voce non ha più senso.
La viltà avvezza a vedere morire nel modo più atroce gli altri, nella più strana indifferenza.
Io muoio, e anche questo mi nuoce.
[Musica]
Nell’ora divina, mancando i colori
Sdoppiate le forme, scoppiati gli umori
Con gli occhi infossati, coi denti di fuori
Tu muori!
Nell’ora divina cambiati gli odori
Coi nervi strappati da troppi tremori
Il cuore squarciato da troppi bruciori
Tu muori!
E tra il primo e il secondo minuto
Il respiro si viene a strozzare
Tra il secondo e il terzo minuto
Nero il sangue si va ad addensare
E tra il terzo e il quarto minuto
Il cervello continua a pensare
E tra il quarto ed il quinto minuto
Nell’ora divina scomparsi i timori
Scomparso il pensiero, scomparsi i rancori
Col ventre rigonfio da troppi liquori
Tu muori
Nell’ora divina cessati i dolori
Nel tempo incosciente di nuovi terrori
Costretti da un arido senno i furori
Tu muori
E tra il quarto e il quinto minuto
L’energia è venuta a mancare
E tra il quinto ed il sesto minuto
L’anarchia s’è venuta a creare
E tra il sesto e l’ottavo minuto
Uno schianto e nell’ombra vagare
Tra l’ottavo ed il nono minuto
Uno schianto e il mondo scompare
No, no, non può, non può più parlare, non può più parlare
No, no, non può, non può più parlare, non può più parlare, no
No no no no non può più parlare, non può più parlare
[Parlato]
Tutte le piaghe sono al sole ed egli muore sotto gli occhi di tutti
Perfino la madre sotto il petto, il ventre e i ginocchi guarda il suo corpo patire, l’alba al vespro gli fa luce sulle braccia aperte e l’aprile intenerisce il suo esibire la Morte a sguardi che lo bruciano
Perché Cristo fu esposto in croce?
Oh scossa del cuore al nudo corpo del giovinetto, atroce offesa al suo pudore crudo, il sole e gli sguardi!
La voce estrema chiese a Dio perdono per un singhiozzo di vergogna rossa nel cielo, senza suono, tra pupille fresche annoiate di lui, morte, sesso e gogna.
Bisogna esporsi, questo insegna al povero Cristo inchiodato. La chiarezza del cuore degna di ogni scherno, di ogni peccato, di ogni più nuda passione, questo vuol dire il Crocifisso, sacrificare ogni giorno il dono, rinunciare ogni giorno al perdono, sporgersi ingenui sull’abisso.
Noi staremo fermi sulla croce, alla gogna, tra le pupille limpide di gioia feroce, scoprendo all’ironia le stille del sangue dal petto ai ginocchi, miti, ridicoli, tremando d’intelletto e passione nel gioco del cuore arso dal suo fuoco.
Per testimoniare lo scandalo.
[Musica]
Le mie ansie sbagliate
Vanno in giro da sole
Con le mani piagate
Senza più le parole
Potessi dir l’effetto che mi fa
Un cantico cristiano alla mia età
Universi incendiati
Un tremare interiore
Per le ali spezzate
La mia parte migliore
Smagrita, insofferente maestà
Un angelo tagliato in due metà
Le mie ansie sbagliate
Vanno in giro da sole
Con le spalle piegate
Senza un grido
Prodigioso il silenzio
Scaturito dal canto
Uno sporgersi incauto
Sull’abisso
Sconfitta inconsistente la realtà
Sarebbe già Vangelo la pietà